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L'UOMO DEL TRENO
(L'HOMME DU TRAIN )
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 7 gennaio 2003
 
di Patrice Leconte, con Jean Rochefort, Johnny Hallyday, Jean­-François Stévenin, Riton Liebman, Isabelle Petit­-Jacques, Edith Scob, Charlie Nelson (Francia, 2002)
 
Incontro al vertice. Fra due attori, due star, due personaggi, due solitudini, due caratteri: che si oppongono, si attirano, fino a desiderare di confondersi. Fino ad effettuare un vero e proprio "transfer" (perlomeno nelle intrenzioni degli autori).

Operazione quanto mai schizofrenica. E, curiosamente, proprio in termini cinematografici. Poiché, se tutta la prima parte del processo funziona a meraviglia (ha convinto una buona parte della critica; e gli spettatori, sono pronto a giurarlo, adoreranno), la seconda sprofonda inspiegabilmente nelle spiegazioni inutili. Che finiscono per insinuare, forse ingiustamente, il dubbio della strumentalizzazione su tutta una faccenda che si era avviata nei migliori dei modi.

Un visitatore taciturno, chiuso come un'ostrica nella liquidità del proprio sguardo azzurrino che sbarca in una cittadina immersa nelle foglie fradice di una serata autunnale. Un abitante del luogo, loquace, questo, tanto quanto ermetico è il primo, incontrato fortuitamente nell'unico locale ancora aperto a quell'ora, la farmacia. Uno svaligiatore di banche, in missione sempre meno segreta; un professore di lingue in pensione, con molti conti in sospeso nei confronti di un'esistenza da scapolo borghese in provincia. Finiranno, come dubitarne, per invidiarsi i fantasmi a vicenda. Pantofole contro pistole: ma non nell'ordine stabilito dal caso.

Reduce da vari passi falsi, l'autore di LE MARIE DE LA COIFFEUSE e di MR.HIRE, parte che è una delizia. E non solo poiché si ritrova un mostro della recitazione intimista sopra le righe come Jean Rochefort; non solo perché ricicla una popstar inquadrata come Johnny Holliday in un sorprendente introverso, e non necessariamente scerebrato. Ma perché riesce a mutare in melanconia e dolcezza la lentezza del proprio sguardo cinematografico, sciabolare di umorismo per non soccombere al patetismo, sposare alla perfezione il tono del racconto allo sfondo. Accompagnare insomma con tutta una serie di accordi espressivi appropriati le formidabili esercitazioni virtuosistiche dei suoi due solisti.

Ahimè, prima ancora di Leconte, è lo sceneggiatore (Claude Klotz) ad arrischiare di mandare tutto in malora. Dopo tanta delicatezza ed intimità, dopo quella fusione piena di tatto fra due personaggi diversi che lo spettatore aveva perfettamente intuito, quindi capito, infine goduto, ecco che a colpi di montaggi paralleli (i guai dell'età, per l'uno, quelli della malavita, per l'altro) gli autori hanno la bella pensata di mettersi a spiegare la scienza al popolo. Cosi, L'UOMO DEL TRENO tende a farsi sottolineato e sentimentale, schematico e, appunto, strumentale: tutta l'arte impossibile di voler modellare la propria creatura sull'arbitrio delle proprie imposizioni. Al posto di abbandonarla e, meglio, di concederla ai preziosi imponderabili della vita.


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